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Un racconto per San Valentino: Adele

  • Perché l'amore, quello vero
  • 13 feb 2016
  • Tempo di lettura: 7 min

I colpi alla porta risuonarono più forti e finalmente Adele si svegliò. Occorsero parecchi secondi prima che la sua mente comprendesse di essere viva e pian piano cominciò anche a rendersi conto di chi fosse. Le imprecazioni che provenivano dal corridoio la fecero tornare più in fretta reattiva e tentò di alzarsi. Dapprima le gambe non la ressero e ricadde di sghembo sul divano dove era sdraiata, poi caracollò fino alla porta e aprì il chiavistello. La furia che entrò dalla porta la scaraventò a terra senza nemmeno considerarla, e si diresse verso la cucina. Lei si alzò e richiuse la porta, storcendo il naso alla puzza di sudore e whisky dozzinale che lui si era lasciato dietro.

<<Dove hai messo la mia bottiglia!?!>>

Alla ragazza cominciarono a drizzarsi i peli sulle braccia. Sapeva cosa succedeva quando lui era ubriaco, e questa volta oltre ad essere completamente sbronzo era anche incazzato. Probabilmente aveva di nuovo perso al gioco e lei non voleva neanche pensare a cosa si fosse giocato questa volta. Sapeva bene che le botte sarebbero arrivate, presto o tardi, era abituata a questa frequente reazione a catena che la portava a rimanere per ore in uno stato di semi-incoscienza, appallottolata in un angolo. Si condusse a forza in cucina a cercare la bottiglia, che lui le strappò di mano in malo modo, e pregò con tutto il cuore che la bambina non si svegliasse proprio adesso. Lui, trascinando i piedi, si diresse verso il lurido divano e ci si buttò sopra, lanciò via le scarpe e appoggiò i piedi sul traballante tavolino davanti a se. Quando accese la televisione a tutto volume la bimba cominciò a piangere.

<<Falla smettere, cazzo, non si può mai stare in pace, qui!>> Adele andò velocemente nello stanzino, che oltre a scope e stracci ospitava anche una cesta di vimini appoggiata in terra, e prese in braccio la piccola. Non si ricordava quando le aveva dato da mangiare l’ultima volta, quindi la portò in cucina e scaldò il latte.

Si era ripromessa cento volte di tenere a mente gli orari dei pasti di sua figlia, sapeva quanto era importante che si nutrisse bene e che avesse le giuste ore di sonno, ma purtroppo non ci riusciva mai e si odiava per questo. Spesso si sentiva talmente giù di corda da trascinarsi per la città anche di giorno in cerca di uno spacciatore e, qualche volta, per la fretta si era addirittura dimenticata la bambina a casa. Dopo essersi fatta una dose si sentiva così bene che non pensava a niente per un po’ di tempo. Quando tornava a casa, però, si fermava sempre un momento ad ascoltare dietro la porta, sperando di sentire il suo pianto, solo allora tirava un sospiro di sollievo, ingoiando ancora una volta l’amaro senso di colpa che aveva dentro. Appena entrata correva veloce dove dormiva la sua creatura e la stringeva forte a sé, promettendole che non sarebbe successo mai più.

Fino alla volta successiva.

L’arrivo della bambina era stato un “incidente”, e Adele non avrebbe saputo dire né dove né quando fosse successo. In verità non ricordava nemmeno chi fosse il padre, ma per fortuna il suo compagno era sempre stato troppo ubriaco o troppo fatto per riuscire a fare un calcolo del genere. Per tutta la durata della gravidanza lei non aveva mai pensato nemmeno una volta al bambino. Subiva passivamente quello scomodo aumento di peso, sul suo corpo magro ed emaciato, cercando di “sballarsi” il più possibile. Quando le si erano rotte le acque era andata da sola in ospedale, con il tram. La gente le passava lontano e non si girava nemmeno a guardarla, nessuno si era accorto che stava per partorire, tutti avevano pensato che fosse una spostata che cercava di smaltire gli effetti di una qualche sostanza. Del parto non aveva un ricordo preciso. Ogni tanto le apparivano nella memoria immagini di se stessa che urlava insulti alle infermiere, o che si strappava la flebo e tentava di scappare dalla porta secondaria. Della bambina, però, in fondo era contenta, le si era affezionata, le voleva bene, ed il fatto di dover badare a qualcun altro oltre a se stessa aveva aumentato di un poco la sua autostima.

Dopo averle dato il latte le cambiò il pannolino e la mise di nuovo a dormire, sperando intensamente che si addormentasse subito. Avrebbe voluto uscire, ultimamente non stava mai volentieri in casa quando lui era ridotto in quelle condizioni, ma aveva paura che se lei non ci fosse stata se la sarebbe presa con la bambina. L’ultima cosa che avrebbe voluto era che succedesse qualcosa alla piccola, non se lo sarebbe mai perdonato.

<<Ehi, vieni qui con me. Forza baby tienimi compagnia e bevi qualche cosa anche tu!>>

Adele si avvicinò lentamente e si sedette sul bordo del divano. Lui, con un braccio poderoso, la tirò a sé e, sghignazzando, cominciò a palparle il seno. In quel momento l’ultima cosa che lei avrebbe voluto era che lui pretendesse di fare sesso, ma non era mai successo che il suo parere contasse qualche cosa. Mai nella sua vita.

Si lasciò andare senza opporre nessuna resistenza, sperando che tutto finisse presto.

Il sesso, per lei, era sempre stato un prezzo spiacevole da pagare per ogni cosa che aveva desiderato.

Da quando aveva lasciato la casa dove era nata, tutto era stato veramente complicato. Era troppo giovane, troppo immatura. Era troppo sola. I tiepidi entusiasmi dei primi giorni si erano sciolti nei morsi della fame. Troppo presto aveva smesso di guardare avanti, richiudendosi in un’apatia sia fisica che mentale. Lui l’aveva trovata così: fragile ed incapace di venirsi in aiuto e l’aveva resa emotivamente dipendente dalle poche briciole di attenzione che le regalava in maniera sempre più misera.

Aspettò che lui si addormentasse. Lentamente cercò di districarsi da sotto il suo corpo massiccio e riuscì a scivolare sul pavimento. Per un attimo temette di averlo svegliato, quando lo sentì farfugliare nel sonno pesante di alcool e anfetamine. Con un sospiro si chiuse nel bagno, per lavarsi via di dosso quell’odore acre di sconfitta, che ogni volta la spingeva ancora più giù nel buio dei suoi pensieri.

Seduta sul bordo della vasca scrostata attese a lungo di sentirsi meglio, ma aspettò invano. Quando finalmente, emettendo un debole gemito, riuscì ad alzarsi la trafisse un’immagine sconosciuta riflessa nello specchio sudicio. Il suo viso le era ormai completamente estraneo, e la consapevolezza che la colpì le provocò una sensazione nuova. Forse aveva davvero toccato il fondo e in quell’attimo qualcosa di immenso la spronò a dare un colpo di gambe, come per tornare a vedere la luce. Il grido penetrante della neonata la scosse. Fu come una rivelazione.

Adele camminava veloce lungo il viale alberato, senza fermarsi e guardandosi attorno solo ogni tanto. Aveva fretta di arrivare. Il vento freddo le tagliava la faccia, ma lei non ci faceva caso. Per la prima volta in vita sua sapeva esattamente cosa fare, e voleva portarla a termine prima che quella donna sconosciuta che abitava nel suo specchio le facesse cambiare idea. La bimba dormiva ignara tra le sue braccia, cullata dai passi ritmati di chi sa dove sta andando. Le coperte rattoppate la coprivano totalmente, rendendola un semplice fagotto informe. Ogni tanto una macchina passava rapida, e Adele rallentava. Non voleva certo sembrare una ladra che stesse scappando, o qualcuno che attirasse in qualche modo l’attenzione di uno zelante sconosciuto. Non aveva bisogno di nessuno per fare ciò che aveva deciso, doveva essere sola, voleva essere sola. Il freddo le faceva bruciare i polmoni, così si decise a calmare il passo e a respirare più lentamente. Per la prima volta da tanto tempo si chiese che persona fosse diventata. Non lo sapeva. Era come se non si sentisse più una vera persona, ma una cosa senza importanza, da scartare come un rifiuto. Comprendeva bene la gente che la incrociava in giro per le strade, la scrutavano e poi voltavano gli occhi. Pietosi, alcuni. Ostili, altri. Schifati, tutti. Lei non era nessuno, anzi, era peggio che nessuno, era un’intoccabile. Uno di quei fantasmi tormentati che abitano gli angoli delle strade, ma che nessuno vede. Una di quelle forme indistinte che si arrotolano nei giornali, sotto la metropolitana, e che i passanti frettolosi ricordano solo per le macchie maleodoranti di urina che lasciano sul pavimento. Un fardello inutile, da dimenticare. Ora sapeva per certo che non voleva la stessa vita per sua figlia, lei aveva diritto ad una possibilità in più, ad un nuovo inizio. Sorrise dolcemente, mentre una lacrima le scorreva sulle guance. Si sentiva meglio, anche se infinitamente triste. Sapeva che si sarebbe sentita vuota, domani, un guscio secco e fragile senza uno scopo nella vita, ma solo così avrebbe cominciato a risalire la china. Voleva, per la prima volta nella sua vita, fare la cosa giusta. Sapeva di poter essere, per un giorno almeno, finalmente la mamma che sua figlia si meritava. L’amore, alle volte, trova forme bizzarre per manifestarsi, forme che alcuni definirebbero solo follia, ma che per una madre rivela semplicemente l’amore estremo.

Finalmente, in fondo al lungo viale, cominciò ad intravedersi vagamente il luccichio del mare. Lungo la passeggiata buia i pochi lampioni si ergevano dentro piccoli cerchi luminosi di foglie rinsecchite. Il vento portava con se l’odore delle posidonie spiaggiate trascinate da spruzzi di gelida schiuma sabbiosa. Le case buie dei villeggianti ammiccavano con aria austera al passaggio di Adele, che pareva quasi intimidita, ora. Il cuore le batteva forte, ma non per la lunga corsa. Sapeva che da quello che doveva fare non si torna indietro, mai più. Si fermò un istante, con i pensieri in subbuglio e si sedette. Tremava. Chiuse gli occhi e si sforzò di pensare con lucidità. Il silenzio della notte e il rumore attutito del mare la calmarono, per un attimo si sentì amata, come quando era bambina e sua madre la cullava, cantando sottovoce una dolce canzone. Il suo ricordo lontano le diede forza e con un profondo sospiro riaprì gli occhi e si alzò.

Non aveva più paura. Sapeva, nel profondo del cuore, che il suo compito era finito. Aveva fatto tutto il possibile, ma adesso questo non sarebbe stato abbastanza. Non tentennò più nella sua decisione, né tentennò quando aprì il piccolo sportello della “Culla per la Vita”, accanto alla clinica di Santa Maria. Con un leggero bacio salutò la sua creatura, la appoggiò sul morbido giaciglio al riparo dal vento e con un triste sorriso suonò il campanello. Lo sportello si chiuse silenzioso, tanto che la piccola non si svegliò nemmeno.


 
 
 

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