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Diamo un'occhiata alla nostra Maddalena...

  • Capitolo 1
  • 11 ago 2016
  • Tempo di lettura: 16 min

Ferma davanti all’armadio aperto passo in rassegna tutti gli abiti da ufficio, ma non ne trovo nemmeno uno adatto al mio umore. I tailleur sono troppo seriosi, gli abitini troppo sexy, i jeans denotano una voglia di spensieratezza che proprio non ho… Cavoli che palle! Vorrei infilarmi di nuovo il pigiama e passare la giornata a letto, a leggere qualche assurdo romanzo horror con le pagine che grondano sangue.

- Mamma, sei pronta? Ricordati che devo arrivare prima, oggi – urla Annalaura dall’ingresso.

Merda, anche stamattina farò tardi. Acchiappo di corsa una gonna grigia e una camicia a caso e mi fiondo in bagno per truccarmi. I capelli li raccoglierò arrivata in studio, ora non faccio proprio in tempo.

Per fortuna stiamo anticipando di qualche minuto l’ora di punta, così posso recuperare il tempo perso e lasciare le ragazze davanti a scuola in perfetto orario. Anzi, forse anche un paio di minuti prima. Sono fiera di me. Non faccio nemmeno in tempo a lanciare verso di loro un bacio che sono già sparite, prese a chiacchierare fitto fitto con le amiche di turno. Non si voltano nemmeno per un ultimo saluto. Niente da fare: non esistono più i figli di una volta. Metto la prima e mi avvio in mezzo al traffico, sbirciandole dallo specchietto retrovisore. Mi spiace un po’ che stiano crescendo così in fretta, il mio ruolo di mamma sta cambiando e io mi sento spiazzata.

Appena metto piede in ufficio, una mano mi afferra con forza e mi trascina di nuovo verso l’ascensore.

- Visto che oggi sei stranamente in anticipo, mi accompagni a fare colazione – esordisce Ludovica, con un tono che non ammette repliche.

- Va bene, d’accordo, ma non serve trainarmi a forza – sbuffo.

- Devo parlarti di una cosa. È importante – attacca con enfasi – e non posso fare nomi qui in ufficio. È uno scoop da brivido… non ne hai idea!

Alzo le sopracciglia in un gesto eloquente, ma lei non se ne accorge nemmeno e comincia a spettegolare a raffica, senza rendersi conto che io la sto ascoltando a malapena. Certo che la mia amica ha un carattere davvero volubile. Ultimamente passa dalla depressione più profonda all’allegria più sfrenata nel giro di qualche minuto. Matta lo è sempre stata, ma così esagera davvero.

Rientriamo in ufficio giusto in tempo per la riunione mattutina, così riesco finalmente a concentrarmi sul lavoro, anche se i suoi pettegolezzi pepati mi fanno guardare un paio di colleghi con occhi diversi. Non che io sia maligna, ma sentire certe news, alle volte, fa aprire gli occhi.

Accendo il computer e comincio a valutare le planimetrie di un grosso fabbricato industriale, che dovremo trasformare in una moderna biblioteca. Mentre osservo alcune fotografie dello stabile, la mia mente comincia a valutare alcune soluzioni; un paio di idee si fanno strada e comincio a buttarle su carta. Occupata a creare, non mi rendo conto del tempo che passa e, quando Ludovica fa capolino nel mio ufficio, faccio quasi un salto sulla sedia.

- È già ora di pranzo? – domando esterrefatta. La sua faccia mi lascia intendere che anche questa volta soprassiederà alle mie stramberie, abituata ormai da tempo a sopportarmi così come sono.

- Muoviti, dai – mi sprona con aria di sufficienza – che se non mangio subito qualcosa finisco per terra, lunga distesa.

La seguo con la testa tra le nuvole, come mi ritrovo a essere ormai da parecchie settimane. Per fortuna non siamo sole e, quando ci sediamo al solito bar, lei ha la possibilità di chiacchierare senza interruzione con un paio di colleghe meglio disposte di me. Io mi limito a sorridere e ad annuire, facendo tesoro di un vecchio insegnamento di mia madre: annuisci, sorridi quando gli altri sorridono e andrà tutto bene. Al termine della pausa, nessuno si accorge che non ho detto neanche una parola per tutto il pranzo. O almeno così credo.

Rientro in ufficio e mi siedo davanti al monitor, credendo di averla scampata, quando Ludovica entra come una furia e si siede sull’angolo della mia scrivania.

- Credi davvero di poter fingere con me? – mi aggredisce guardandomi dritta negli occhi. – So perfettamente come ti senti, non devi far finta di stare bene. Hai bisogno di aiuto, così non puoi andare avanti. Naturalmente non hai preso un altro appuntamento dal dottore, vero?

Butto fuori un sospiro trattenuto, sentendomi addosso tutto il peso della sua amicizia. Mi rendo conto di darle delle preoccupazioni, ma in questo momento ammettere di aver bisogno di aiuto, per me, è molto difficile. Mi sto sforzando di uscire dalla profonda crisi in cui sono piombata, e voglio farlo da sola. In fondo alla mia coscienza sono consapevole di non averne le forze, ma in questo momento mi sento in bilico sul filo di un crinale: basterebbe veramente poco per farmi perdere l’equilibrio e scivolare dalla parte sbagliata.

- Non esagerare – mento – ero semplicemente concentrata sul nuovo progetto, tutto qui.

Lei mi fulmina con lo sguardo, consapevole dell’ennesima balla che le sto rifilando. Scuote la testa e si avvia verso la porta.

- Puoi mentire a tutti, Maddy – dichiara voltandosi un attimo prima di uscire – ma almeno con te stessa cerca di essere sincera.

La frase mi gira in testa per tutto il pomeriggio, provocandomi attimi di panico nei quali trattengo a stento le lacrime. Voglio tornare a essere serena, lo voglio con tutta me stessa, e non riesco a capire se ne sarò mai in grado. Questa situazione mi sta logorando. Ci sono momenti in cui non so più che cosa desidero davvero, mentre avrei bisogno di stabilità, almeno nei miei pensieri. Prima di uscire dall’ufficio, prendo il telefono e cerco il numero del mio psicologo, per prendere un appuntamento. È troppo tempo che non riesco ad aprire il cuore davanti a qualcuno e lui è l’unica persona che può aiutarmi a ritrovare l’equilibrio.

- Maddalena, che piacere sentirti. Come stai? – esordisce il dottore.

Per un attimo le parole mi si fermano in gola. Speravo di incappare nella segretaria e di avere un altro po’ di tempo prima di dover rispondere alle sue domande. Anche se sembrano due parole molto semplici, il suo “come stai” mi mette già in ansia.

- Buonasera dottor Saba, avrei bisogno di un appuntamento. – tronco netta qualunque tentativo di dialogo – Potrebbe trovarmi un’ora, appena può?

- Certamente, cara, lasciami guardare l’agenda…- dice, quasi rivolto a se stesso – Domani ti andrebbe bene? Ho un posto alle quattro.

- Perfetto, a domani – concludo la telefonata, e già la sensazione di essere costretta a guardarmi dentro mi stringe le viscere.

Il dottor Saba si alza dalla sedia e si avvicina al bollitore che sta fischiando come un treno in corsa. Versa l’acqua direttamente nelle tazze e, come sempre, mi fa scegliere la bustina di tè dalla scatolina in legno di cedro. È una piccola consuetudine a cui ormai sono abituata, una coccola psicologica con la quale calmo contemporaneamente i nervi e le corse affannate dei miei mille pensieri accartocciati. Poi, solitamente, sono pronta a parlare.

- Se ricordo bene, Maddalena, la volta scorsa mi stavi raccontando del nuovo incarico che il tuo studio sta valutando - esordisce. – Mi sembra interessante, no?

- Interessante, dice? A me pare un lavoro come un altro, non ci trovo niente di particolare. Sarà perché sono ancora presa dal progetto per l’ospedale di Shanghai…non so.

Il dottor Saba, o meglio Raffaele come vuole che lo chiami, si siede di fronte a me, con in mano la tazza fumante. So che lo fa per riuscire a guardarmi bene dritto in faccia, per leggere nel fondo dei miei occhi quale sia la realtà dei fatti, per andare al di là della mia verità. Purtroppo, negli ultimi mesi, mi sono resa conto di essere io stessa a non vedere chiaro attorno a me. Quello che mi circonda, ogni fatto o parola, mi arriva solo attraverso un filtro spesso e grigio. Uno schermo che rende ogni cosa slegata dalla mia vita interiore, lontana da ogni desiderio di farne parte. Capisco di essere diventata un peso notevole per le persone che amo, così fingo. Fingo interesse, fingo gioia, fingo trasporto o qualunque tipo di desiderio. È quasi diventato un riflesso condizionato. Anche se ci sto provando ripetutamente, però, non sono ancora riuscita a diventare una brava bugiarda.

- Le tue figlie stanno bene? – chiede con tono tranquillo.

Stiamo procedendo su un sentiero facile e pianeggiante, quindi sono in grado di rispondere con serenità. Raccolgo i pensieri e comincio a raccontare.

- Tutto bene, sì. Annalaura tra poco avrà gli esami. Poverina, è spaventatissima! Le abbiamo spiegato in mille maniere che non ha nulla da temere. Abbiamo dovuto tutti affrontare la terza media e l’abbiamo superata senza problemi, anche lei quindi non sarà da meno. Quando le dico così, però, si arrabbia da matti: è convinta di non essere compresa.

Mi viene da ridere pensando alla sua faccia mentre, stizzita, se ne va in camera sua sbattendo la porta. Ho avuto anch’io tredici anni e posso capirla.

- Sara, invece? – prosegue.

-Oh, lei è una vera peste. Ha sempre talmente tante idee da non riuscire a stare ferma un attimo, peggio di un vulcano. È completamente diversa da sua sorella, ha tutt’altro tipo di carattere. A scuola va molto bene, anzi, anche meglio della sorella, ed è sveglia e intelligente. Ha cominciato le medie alla grande: avrà sicuramente un’ottima pagella, ne sono sicura.

- Come hanno preso la…sparizione di Luca? Cosa dicono del padre, lo cercano? – seguita imperterrito. Oh, oh, cominciamo ad andare in salita. Se raccolgo le mie idee con calma, però, sono sicura di potercela fare.

- Be’, naturalmente non sono contente. Non hanno capito bene cosa sia successo, pensano che ci sia stata solo una brutta litigata tra me e lui. Non credo abbiano afferrato altro e, d’altra parte, io non ho nessuna intenzione di raccontare a delle ragazzine come il loro padre si sia trasformato in un pazzo violento. Sarebbe drammatico se capissero quanto se la sia presa con me, quanto male mi abbia fatto. Non avrebbe senso, tanto più che, sono certa, rimarrà a Panama.

- Sei preoccupata? – chiede a bruciapelo, mentre appoggia la tazza e si avvicina un po’ di più, guardandomi bene negli occhi.

- No! No, perché dovrei? – ribatto subito. Mi rendo conto solo in un secondo momento che non posso continuare a mentire in modo così sfacciato, così torno sui miei passi. – Magari solo un pochino… Cioè, sì… Sì. Ho paura, è vero. Se fosse in prigione sarei decisamente più tranquilla. Però è così lontano, ormai, che mi auguro non possa più farmi del male. Lo spero tanto.

Butto fuori le ultime parole in un soffio appena udibile, come se non volessi dare ascolto ai miei dubbi.

- E tu, come stai? Hai ancora gli incubi, di notte?

Sospiro. Non ho voglia parlare di me, non ancora.

- Ogni tanto…sì… Non più così spesso, però. Sto meglio, mi creda, tanto che ho rallentato anche con le pastiglie: mi intontivano troppo e non potevo più passare la giornata a fissare il monitor del computer come se fosse un’apparizione. Devo impegnarmi nel lavoro, è importante che mi senta sveglia, adesso. Devo riuscire a concentrarmi e poi ci sono le ragazze che hanno bisogno di me. Devo sforzarmi di essere una buona madre, anche perché hanno solo me, adesso.

- Utilizzi molte volte il verbo dovere nei tuoi discorsi, Maddalena. Ma se io ti chiedessi che cosa vuoi, invece, sapresti rispondermi?

Eccola! Ecco la domanda che non volevo mi facesse. Cosa voglio? Io non ho nessuna intenzione di riflettere su ciò che voglio, di esaminare i miei desideri sballati e impossibili. Questo andrebbe a scombussolare quel poco di ordine che ho appena messo dentro la mia testa. So che potrei farlo, sarebbe semplice, ma non mi metterò a scrutare dentro al buco nero che ha inghiottito il mio cuore. Ogni piccola emozione, sentimento, o calore che potevo provare in passato, adesso è completamente sparita, fagocitata dalla voragine che mi si è aperta nel petto e io non voglio guardarci dentro. So quello che vedrei, lo so molto bene: è là, in fondo, nascosto dentro l’ombra, accanto alle mie paure. Ha gli occhi blu e il sorriso più accecante che io abbia mai visto, ma io l’ho gettato via e so di non meritarlo più. Sospiro, profondamente.

- No. Non voglio pensarci. In questo momento so soltanto che devo arrivare a stasera, poi penserò a domani. Un giorno alla volta. Non posso fare di più.

Raffaele annuisce, serio, mentre si liscia la barba bianca. Forse è già l’ora di andare. Respiro veloce, come se avessi fatto una gran fatica. Negli ultimi due mesi ragionare su me stessa e sulla mia vita mi costa un sforzo enorme. Non voglio guardare lo sfacelo della mia esistenza, vedere come mi sia rovinata da sola. Sì, perché è tutta colpa mia, non sono così stupida da non averlo capito. Non so comprendere in che modo, ma devo aver reso pazzo mio marito, portandolo a fare cose che non si sarebbe mai sognato prima. Poi, non contenta, ho allontanato l’unica persona che mi rendeva veramente felice. Ho fatto del male anche a Davide, lo so. Sono una persona orribile, o forse solo stupida, e ora ne pago le conseguenze. Raffaele mi guarda, sereno come sempre, aspettando forse che io dica qualcos’altro. Se crede di sentirmi confessare quello che ora mi gira per la testa, ha capito male. Non posso assolutamente fargli intuire la totale mancanza di considerazione che ho per me stessa in questo momento, come mi odio per tutto quello che ho fatto e per quello che ho lasciato che accadesse. So cosa mi direbbe e non voglio assolutamente sentirmi dire di nuovo le solite frasi del cazzo, i proverbiali “non è stata colpa tua”, “tu non potevi cambiare il corso delle cose”, “non puoi sentirti responsabile per gli altri”. Mi sento colpevole e non permetterò a nessuno di togliermi questo fardello di dosso: me lo merito. Taccio, cocciuta, sostenendo il suo sguardo. All’improvviso voglio solo andare a casa, arrampicarmi sul letto con un libro in mano e rimanere tutta la sera a scrutare la stessa pagina senza che nessuno possa tirarmi fuori dal mio guscio. Ho provato a ragionare, lo giuro, ci ho provato veramente, con tutte le buone intenzioni del caso, ma quello che ho guadagnato è stato solo dolore. Mi sono resa conto di provare una sofferenza atroce al pensiero di quello che ho perso, di quello che ho buttato lontano, deliberatamente. Dire che mi manca Davide non rende assolutamente l’idea di quello che sento. È come se una bestia maligna mi stesse divorando lo stomaco a morsi, mentre si aggrappa ai polmoni con le unghie. È terribile sapere di aver rinunciato volontariamente a tutto ciò che desidero, a quello che adesso potrebbe trasformarmi in una persona felice.

Mentre scendo le scale, per uscire in strada, la velocità dei piedi aumenta. Salto i gradini come farebbe una monella, rischiando anche di scivolare sul marmo; il fatto è che non riuscivo ad aspettare l’ascensore: non potevo restare ferma un attimo di più. Ora che ho imboccato le scale e sto scendendo come se avessi il diavolo alle spalle, cerco di arrivare al portone nel più breve tempo possibile: mi manca l’aria. Mi fiondo sul marciapiede e proseguo imperterrita verso il parcheggio. So che devo calmarmi, ma queste sedute mi costano uno sofferenza enorme, sono una vera tortura. Mi guardo intorno, respirando a fondo, e mi sforzo di indirizzare il pensiero sulle cose semplici. Il sole è ancora alto, anche se ci avviciniamo già all’ora di cena, e la temperatura gradevole. Mentre attraverso un giardinetto pubblico, ancora scossa, un bimbo mi guarda con sospetto. Sta costruendo un improbabile castello di terra e foglie proprio accanto alla madre distratta, occupata solo a chiacchierare fitto fitto al cellulare. Devo avere un aspetto piuttosto strano per quel moccioso, perché il suo sguardo crucciato mi segue per un bel pezzo, anche se cerco di sfoderare il più dolce dei sorrisi. Mi detesta anche lui, ma non posso certo dargli torto. Finalmente riesco a guadagnare la mia auto, apro velocemente la portiera e mi chiudo nell’abitacolo. Dopo un attimo una risata mi sale spontanea alla gola: sono proprio una matta! Cosa credo di fare, di scappare dai miei pensieri come se fossero pericolosi criminali nascosti nell’ombra? Magari fosse così semplice! Scuoto la testa, rassegnata ormai a convivere con la ragazza folle che abita dentro di me, e accendo il motore.

Guidando verso casa faccio una deviazione e mi fermo in pizzeria; non ho assolutamente voglia di cucinare stasera, tanto per cambiare, e comunque le ragazze saranno contente: da perfette adolescenti mangerebbero pizza ogni benedetto giorno dell’anno. E poi oggi è anche venerdì, ottima scusa per accontentarle. Mentre aspetto di essere servita prendo in mano il cellulare e mi accorgo di una chiamata persa. Non mi sono ricordata di alzare nuovamente la suoneria, uscendo dal dottore. Un’occhiata veloce al display mi lascia senza fiato per un attimo: è Davide. I pensieri mi si scombussolano tutti, mentre un calore repentino mi brucia le guance. Non pensavo che mi avrebbe richiamata così presto. Ho fatto di tutto per non dargli delle false speranze, anche se, durante l’ultima telefonata, mi ha strappato la promessa che avrei risposto alle sue chiamate, ogni tanto. Sì, ogni tanto. Due giorni mi sembrano decisamente troppo pochi per essere definiti “ogni tanto”. Non posso tornare a vivere in una situazione di totale dipendenza da lui, dalla sua voce, dalle sue mani… Basta!

Mi scuoto e mi avvicino alla cassa per pagare le pizze. Le hanno già messe nella scatola, quindi devo muovermi o le porterò a casa fredde.

Dopo cena mi rannicchio sul divano, in un angolo. Le ragazze sono già a letto e Dylan mi guarda curioso, uggiolando appena. So che le regole sono regole, ma non ce la faccio a vederlo così e lo chiamo accanto a me. Basta una mezza parola e con un balzo è già sulle mie gambe che scodinzola e mi lecca la faccia, felice. Caccio un urlo alla Tarzan, ma lui non desiste, saltandomi addosso con tutto il suo peso da giovane Labrador. Lo rimprovero fingendomi arrabbiata, prima che trascenda sul serio, ma sono perfettamente cosciente di come la cosa in realtà mi renda piena di gioia. Amore incondizionato, ecco quello che un cucciolo riesce a donarti, ed è una delle poche cose pure di questo mondo. In casa amiamo tutti alla follia questo diavoletto peloso e mi rendo conto, in fondo, che una parte di questo sentimento deriva dal fatto che è stato un regalo di Davide. Allontano subito questo pensiero scomodo e mi metto a guardare un vecchio film, mentre gli gratto le orecchie morbide.

Il suono del cellulare mi distrae dallo schermo, anche se in realtà la mia mente era abbarbicata in tutt’altri luoghi. So già di chi si tratta, prima ancora di vedere il display, e d’istinto mi muovo per prendere il telefono. La mia testa, però, è piena di dubbi che vorticano incessanti e mi blocco con la mano a mezz’aria. Ho pochissimo tempo per decidere se rispondere o no: non insisterà a lungo, lo conosco. Ho voglia di sentirlo, non lo nego, ma ho anche paura. Temo che lui si convinca di avere delle possibilità che non voglio dargli. Soffrirà, lo sento, più di quello che ha già patito. E soffrirò anch’io, di nuovo. Posso provare a spiegargli come mi sento? Posso provare a fargli capire che non posso più amarlo? Posso provare a ingannarlo, a ingannarmi, di nuovo? D’impulso rispondo.

- Ciao, Lena – mi saluta con dolcezza. - So che non dovevo chiamarti, lo so, ma… avevo bisogno di sentire la tua voce. Come stai?

La voce? La mia voce, che ora non vuole saperne di uscire dalla gola? Mi sforzo di tornare in me dando un colpo di tosse.

- Ciao. Tutto bene… normale direi. Stavo guardando un film. Con Dylan. La tensione nella voce si stempera. Quasi sorrido per la mezza battuta.

- Ti ho disturbata? Ti chiamo un’altra volta, se preferisci. È che…

- No, no, è un vecchio film. L’ho già visto almeno tre volte, non importa – replico veloce.

Mi sorprendo a scoprire in me la paura che riattacchi.

- Deve piacerti molto se lo guardi spesso. Che cos’è?

Dio, perché la sua voce deve farmi ancora così tanto effetto? Cerco di mantenere la lucidità, imponendomi di restare calma e soprattutto fredda. Non posso lasciarmi andare, non devo.

- È “Vite sospese”, sai quello con Michael Douglas e la Griffith? Mi è sempre piaciuto molto.

Mentre parlo mi rendo conto, a un tratto, di come il titolo rispecchi appieno la nostra situazione. Lui, invece, sembra non essersene reso conto: non dice niente in proposito. Magari lo pensa, però.

- Molto bello, sì, l’ho visto anch’io, ma... un po’ teso, non trovi? Forse ti farebbe meglio fare quattro risate, quando guardi la tele – commenta con tono accorto.

Cosa vorrebbe dire, che sono nevrotica? O depressa? Non avrebbe tutti i torti, in effetti.

- Non mi piacciono per niente le commedie, lo sai. Preferisco i film che riescano a trasportarmi lontano. Che mi prendano da subito con una storia forte, intensa... Comunque non è che lo stessi seguendo proprio bene… faceva più che altro da rumore di fondo.

- A cosa, ai pensieri? – domanda, ma non aspetta la mia risposta e prosegue. – Su cosa stavi riflettendo?

Sospiro. È così difficile tirare le somme di tutto quello che mi passa per la testa... Da dove inizio adesso?

Dalla cosa più logica Maddy, da quella più importante, è chiaro.

- A noi – riesco ad ammettere con un filo di voce.

Per qualche attimo temo che non mi abbia sentita, il silenzio si dilata. Poi invece risponde, calmo.

- Lo so, ci penso sempre anch’io. Mi piacerebbe sapere su che cosa ragionavi, Lena. Che cosa pensi di noi? Pensi che ci sia ancora un noi?

Bella domanda! Da un milione di dollari. Eppure le parole si riversano fuori come un fiume in piena. Non le controllo più, apro la bocca e un vortice di pensieri diventano suoni, traboccando dalla mente contorta. Mi pentirò di questo, ne sono sicura, ma non posso farne a meno. Non adesso.

- Non lo so, Davide, non ti so rispondere. Alle volte credo che sia tutto finito, poi mi sveglio di notte e ho voglia di chiamarti. Io mi trovo in una situazione confusa, difficile. Sto male e non voglio peggiorare ancora di più questo dolore. Ma non so come fare…non so proprio come fare. Le parole quasi mi strozzano, mentre escono affannate. – Vorrei che fosse tutto diverso, lo vorrei tanto…

- Basterebbe che tu ne avessi davvero l’intenzione, che tu ti fidassi di me. Io ti amo, Lena. Come fai a non capirlo? Voglio solo starti accanto, aiutarti a superare questo brutto periodo. Non credi che sarebbe tutto più leggero se riuscissi a fare affidamento su di me? Non pensare troppo, ti fa male torturarti con ragionamenti confusi di cui non capisci nemmeno tu il senso: così peggiori solo le cose. Ognuno di noi ha i suoi tempi per guarire dalle proprie ferite, periodi che nessuno deve permettersi di giudicare. Il dottor Saba te lo ripete in continuazione: devi solo darti tempo. Il tuo tempo.

- Non credo di essere in grado…

- In grado per cosa, Lena? Di cosa stai parlando, perdio?! – sbraita. Sta perdendo la pazienza e io non posso sopportarlo oltre. La mano che stringe il telefono comincia a tremare.

- Ti prego, Davide, lasciami stare. Ne abbiamo già parlato troppe volte e finiamo sempre per litigare. Non posso pensare di tornare con te, non posso farlo. Non è cambiato niente dentro di me, sono solo più confusa. Ho bisogno di stare da sola, fino a quando non capirò esattamente cosa voglio davvero. Ti chiedo per favore di non chiamarmi più. Riesci solo a incasinarmi la testa.

- Lo sai che non è così, vero? Riesci a comprendere che i tuoi dubbi nascono solo dal fatto che ti manco? È questo che ti spaventa, adesso. Cerca di ragionare con calma e capirai che stai cambiando, sei già cambiata. Trattiene a stento il tono, parlandomi come a una bambina capricciosa, e me ne rendo conto con stizza.

- No, non è vero – ribatto cocciuta.

- Sì che è vero, lo hai detto tu stessa. Quando ti viene voglia di sentirmi, secondo te, è per farti del male da sola? Come fai a non capire?!

- Voglio andare a dormire, Davide, è tardi. Buona notte.

Il dubbio che abbia ragione comincia a insinuarsi tra i miei pensieri confusi. Ho quasi paura che sia vero tutto quello che dice, ma non ho la forza di affrontare questa verità.

- Lena, per favore non riagganciare. Ho alzato la voce, mi dispiace, sono uno stupido. Non riagganciare – mi chiede, con la voce che gli si spezza in gola.

- Ti prego, lasciami andare… – sussurro appena. Il respiro mi si blocca nei polmoni, dandomi la sensazione di boccheggiare. Soffoco. – Buona notte.

Quando riesco a ragionare di nuovo in modo lucido, il televisore sta trasmettendo un documentario sul ciclismo. Ho osservato lo schermo per quasi due ore senza vedere assolutamente niente. Il cervello, invece, continua a girare a mille. Immagini e ricordi si mescolano, creando un caos assurdo, e capisco che ho bisogno di dormire: sono sfinita. Spero di potermi svegliare un giorno con la facoltà di capire di nuovo me stessa. Sono sicura che, andando avanti di questo passo, finirò per impazzire. Spengo tutto e, a fatica, mi trascino a letto.


 
 
 

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